giovedì 19 aprile 2012

Non è per sempre. Come la Padania, per esempio.

Senza cadere nella trappola che ti fa scadere nel più banale dei luoghi comuni, fatto spesso e volentieri di strati e strati di snobismo palesato per partito preso, dico subito che io ci credevo. Ci credevo, giuro! Ho persino preso l'edizione limitata del disco a scatola chiusa perché, tra le altre cose, da dopo l’arresto di ciccio-megaupload, è praticamente impossibile imbattersi in leak d’ogni genere e sorta. Quindi, visti i presupposti creati dai due pezzi messi in circolazione nell’etere quali l’aspra e adrenalinica “La Tempesta è in Arrivo” e il bellissimo pezzo che da il titolo al nono lavoro in studio degli Aftehours, “Padania”, le aspettative erano altissime. Ed è questo il punto: le aspettative ti fottono. Le aspettative ti fottono sempre.

Abbagliato appunto dai due pezzi sopraccitati, dal rientro in formazione del poliedrico ed eclettico Xabier Iriondo (non lo si sentiva in un disco della band milanese da pressappoco dieci anni, più o meno dai tempi di Non è Per Sempre del 1999), dal silenzio discografico datato 2009, io, dell’arrivo della nuova ‘creatura’, non vedevo l’ora. Vi lascio immaginare la minuziosa cura e curiosità adoperata nello scartare questo cofanetto da QUARANTA euro e, successivamente, di immaginare la mia faccia nello scoprire che la famosa cover alternativa del disco è composta dal CD avvolto da una misera busta di cartoncino tipo quelle dei programmi per PC allegati ai giornali d’informatica, che la chiavetta USB è in uno scomodissimo formato tessera difficilissimo da inserire nello slot, che le sei foto son carine ma già viste e riviste, che il booklet pare una semplicissima fanzine fighetta e che il ‘famoso’ gadget esclusivo altro non è che una composizione di ben sei boccette di plastica VUOTE, simili a quella dell’amuchina, con su scritto "Concentrato d'anima di..." e i sei nomi della band, uno per boccetta. Vi interessa conoscere nel dettaglio lo stock di parolacce e imprecazioni usate nei minuti successivi alla scoperta o ve le risparmio? Ok dai, ve le risparmio.

Lasciata alle spalle la rabbia e l’indignazione per la fregatura appena presa, metto il disco in cuffia con curiosità ed entusiasmo infantile, mi sdraio e pigio ‘play’. Partono le prime note di violino di "Metamorfosi", solenni, quasi funebri, che si fanno rimpiangere subito dopo le prime parole pronunciate da Manuel Agnelli, il quale pare voglia emulare in maniera pessima e dissacrante il fu leader degli Area, Demetrio Stratos, e la sua dissonante maniera di cantare. Quello che salta subito all'orecchio, è l’impressione che qualcuno stia pestando i calli al cantante che, più che produrre melodia, produce suoni di lancinante dolore. Il disco prosegue con un susseguirsi di tracce che fanno fede alle parole spese dalla band durante le interviste delle ultime settimane, la quale, in più occasioni, ha espresso la volontà di distanziarsi sensibilmente dal proprio marchio di fabbrica.

L’elemento di disturbo principale, altro non è che quell'insana voglia di 'essere dissonanti come non mai' quella voglia di 'spiazzare tutti a tutti i costi' che ha reso un disco con potenziale altissimo e intuizioni a dir poco geniali, un'accozzaglia di suoni e strumenti buttati lì a caso, che danno l’impressione d’essere messi lì apposta per rendere i pezzi inascoltabili. Pezzi come "Terra di Nessuno", "Costruire Per Distruggere", "Nostro Anche Se Ci Fa Male" o "La Terra Promessa Si Scioglie" riescono a farsi notare in mezzo a tutto il rumore del disco, ma non riescono comunque ad avere l'appeal che una canzone degli Afterhours è sempre riuscita ad avere. Che Manuel abbia trovato il modo per far star zitto il pubblico durante le esibizioni? Probabile! Com’è anche probabile che questo disco risulti ostico a chiunque ami un certo tipo di formula rock, che fa del suo strofa-ritornello-strofa la sua forza trainante. Sta di fatto che un fan di vecchia data, avrà bisogno di qualche ascolto in più prima di riuscire a mandar giù gran parte di queste quindici tracce, arrivare alla fine dell disco o semplicemente trovare un aggettivo differente da ‘merda’ per descriverlo.

“Succede anche nelle migliori famiglie”, dice il detto. E chi ha detto che gli Afterhours siano esuli dal cambiamento? Certo, chi ama questa band l’ama soprattutto per quei suoni lì, quel cantato lì. Con questo nuovo materiale ti ritrovi frastornato, confuso e ad un certo punto frustrato durante l'ascolto. Missione compiuta, quindi. Se questo era l’obbiettivo, direi che hanno fatto centro. È facile arrivare a credere che una delle tue band preferite abbia partorito la sua più grossa cagata discografica, il difficile sta nel credere che la suddetta band si aspetti che ti possa piacere da morire un disco del genere. Il paradosso è che con questo lavoro, con questo concept, la band vuol fare passare un messaggio. Mi chiedo come si possa far passare un messaggio se lo condisci di rumori e dissonzanze. È come sussurrare un manuale di istruzioni di un apparecchio alimentato ad energia nucleare in una sala macchine durante l'orario di lavoro.

La personalissima idea che mi son fatto è che, con questo lavoro, la band voglia e alla fine riesca fin dal titolo a spiazzare l’ascoltatore ‘tipo’. Direi che ce l'hanno fatta, hanno fatto centro.

Al primo ascolto penso sia impossibile riuscire ad apprezzarlo, ma se gli si da qualche possibilità in più, è persino probabile che riesca crescere nelle orecchie di chi non vuole abbandonare l'idea che la sua band preferita sia sempre la stessa.

È questo il punto, anzi... è questo il segreto: basta dimenticarsi che la band che sta suonando sia quella che credi.

E passa tutto.

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